Celebrazione Eucaristica

presieduta da

S. E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello

per

Elisabetta Rotoli

Pignataro Maggiore, 3 gennaio 2012

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Saluto iniziale

 

Invochiamo lo Spirito Santo su di noi, su questa celebrazione, sui nostri cuori naufraghi che trovano in questo momento un approdo, un appiglio, un modo per non precipitare. È la nostra fede che ci raccoglie, che ci invita a guardare oltre, a pregare non tanto per Elisabetta ma con lei, e a chiedere la sua intercessione. La sua giovane vita, provata, visitata, triturata dalla sofferenza, è stata finalmente liberata.

Vieni, Spirito, dai quattro venti e soffia su chi non ha vita, dice l’immagine del profeta Ezechiele che abbiamo appena cantato, dove c’è un popolo di morti che chiede di vivere. Certamente questo popolo di morti siamo noi, non Elisabetta, che vive più di noi nella gloria di Dio. Lo vogliamo credere con forza, con tutta la disperata speranza della nostra fede.

Iniziamo questa celebrazione chinando il capo, chiedendo perdono dei nostri peccati, per le volte in cui non abbiamo amato la vita abbastanza.

 

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LETTURE

Giobbe 19, 1.23-27

Salmo 22

Marco 14, 32-52

 

Omelia

 

Carissima Elisabetta,

il tuo Vescovo chiede aiuto a te perché non gli si incrini la voce, perché questo dolore resti negli argini della dignità, perché anche il dolore ha la sua dignità, e tu lo sai e ce lo hai insegnato ampiamente.

 

L’alba di questa mattina, livida, si è appoggiata sui nostri davanzali. Non parlo della tua alba, luminosa, radiosa;  la nostra - l’avrai vista dall’alto - era livida, terrea, come i nostri cuori sbandati, anche quello del tuo Vescovo. Magari, Elisabetta, le persone che sono qui pensano che egli abbia una risposta alle tante domande, ai tanti perché che come pioggia battente si sono scagliati e si scagliano in questo momento anche sull’altare. Egli sa, e anche tu lo sai, che Dio non ha bisogno d’essere difeso; la “teodicea” - si chiama così in termini tecnici - è finita con il Libro di Giobbe, di cui tuo fratello ha letto un brano, un uomo, come te,  provato in mille modi, al cui capezzale corrono tre amici con i loro discorsi saggi che vogliono difendere Dio e vengono, alla fine del libro, smascherati nella loro insipienza.

 

Se vuoi, è bello trovarci qui, intorno alla tua bara - ma tu non sei qui, sei con noi in altra dimensione - trovarci con te intorno all’altare per scoprirci poveri di parole: la non-credenza è l’assenza di Dio, è perdere Dio, ma la credenza, la fede,  è perdere con Dio. “Perdere con” indica la sconfitta con Lui (in sua compagnia), ma anche risultare sconfitti nella lotta contro di Lui come Giacobbe. Questa lezione l’abbiamo appresa da te, nelle tue opere e nei tuoi brevi e preziosi giorni.

Quelli fra noi che pensano che credere sia vincere si sbagliano, e ancora una volta questa tua bara, la tua vita, la tua morte, ci insegnano la difficile arte della resa.

Elisabetta, abbiamo seguito in tanti le alterne vicende della tua malattia. Non posso dimenticare quando mi hai comunicato la totale remissione della tua malattia: una bandiera di vittoria! Il tuo Vescovo era contento con te, ancora di più i tuoi genitori, Peppe e Angela, i tuoi fratelli, gli amici. Vedi come sappiamo vincere e come invece la sconfitta ci trova senza parole? Noi, qui, in questo momento, vogliamo celebrare la vittoria della fede e la sconfitta di quanti tra noi presumono di sapere, di fare. Anche tu hai lottato con noi per vincere e a un certo punto hai avuto la percezione che era tempo di arrendersi. Tra resistenza e resa si coniuga l’essenziale di ogni storia, di ogni vita!

 

Perdere con Dio è la fede. Per questo, nel Vangelo, ci è stato ripresentato Gesù nell’atto in cui prega, come abbiamo pregato noi, come hai pregato tu, come abbiamo pregato in tanti: Padre, se è possibile, allontana questo calice.

La fede è chiedere. E abbiamo chiesto in tanti la tua guarigione in attesa dell’esaudimento, fino all’esaurimento, e non siamo stati esauditi. Nel 1978 un grande Papa, in un momento drammatico della nostra storia nazionale, esordì così, anche se fu accusato dai teologi: Tu non ci hai ascoltati. Era Paolo VI, a conclusione dei funerali di stato per Aldo Moro. Se ebbe l’ardire di farlo un grande Papa, anche il piccolo e povero Vescovo di Teano può dirlo: Non ci hai ascoltati!

 

Portiamo il broncio a Dio, e questo è un atto di fede. Sembra blasfemo, sembra essere un esodo dalla fede; in realtà è un ingresso nella fede: Non ci hai ascoltati! Non due o tre a chiedere la stessa cosa - come ci indica Gesù - ma cento e mille in una cordata di preghiera che ha riunito persone, famiglie, comunità e luoghi lontani in una coralità che sa già essa stessa di miracolo. Forse, Elisabetta, il rivolgerci a Dio è già il motivo della preghiera al di là di ogni esaudimento. Anche Gesù, con il cuore in tempesta, chiese che passasse da lui il calice amaro della passione e morte e non fu ascoltato.

Si resiste, si combatte e si perde, ci si arrende, tutti, Elisabetta. È più difficile farlo alla tua età, quando le speranze promettono, quando ci sono progetti, quando l’amore di Marco e per Marco sogna cose belle, quando c’è una laurea a portata di mano, quando la giovinezza è moneta spendibile su tanti mercati…, ma credere è perdere con Dio. Questa lezione vogliamo che tu imprima oggi nella nostra mente e nel nostro cuore. Tu sai che questo perdere è più di una vittoria, quando è ri-mettersi, quando è fidarsi, abbandonarsi,  quando è chiudere gli occhi e dire: “Amen”.

 

Ricordate, Angela e Peppe, eravamo a poche ore, senza saperlo, dalla partenza di Elisabetta, nel monastero di San Pasquale e vi ho invitati io stesso a dire “amen” a questo anno che ci veniva incontro. La fede è “amen”, è dire: “Sì, accetto”. Non significa dire “condivido”, ma “accetto”, “mi fido” come abbiamo pregato col salmo 22, il salmo della pace, che ricorderai, Elisabetta, ti ho detto a memoria poche ore prima che tu partissi al Policlinico di Napoli,  il Signore è il mio pastore, non manco di nulla… Anche se dovessi attraversare una valle oscura, non temerei alcun male… La fede è dire queste parole quando sembra tutto perduto. Ovviamente, Elisabetta, queste cose non le dico a te, tu ora le sperimenti; le dico a me, le dico ai sacerdoti presenti, ai seminaristi, ai tuoi genitori, ai tuoi familiari, a Marco, a tanti che sono passati accanto alla tua salma vestita a nozze per le nozze dell’Agnello, quelle a cui siamo invitati gratuitamente dopo aver perso, quando avremo declinato ogni presunzione.

 

Ho molto chiare le immagini del nostro ultimo incontro, drammatico come tutte le cose vere, nel tentativo di aiutarti a partire, perché - i sacerdoti lo sanno, perché essi vivono continuamente a contatto con la vita che incede alla morte, con la morte che si apre alla vita - ho cercato con povere parole di aiutarti ad uscir fuori, a tagliare l’ultimo cordone ombelicale che ti legava a questa vita, a quella sofferenza, a quella croce che adesso non c’è più. Io non me lo ricordavo, ma me lo ha ricordato Peppe annunciandomi la tua partenza ieri mattina (i poeti sanno fare ancora attenzione alle parole!): ho utilizzato il verbo “sgusciare”. Ti ho detto: C’è qui l’olio dei malati, sto per farti l’unzione. Tu eri con le palme aperte come un uccellino caduto implume dal nido, nel gesto della piena remissione, del pieno abbandono e ti ho detto: Adesso quest’olio, Elisabetta, ti aiuterà a sgusciare da questo dolore, da questo tempo, da questo spazio, da questa nostra vita, bella, certo, ma drammatica, e a sgusciare verso la vita piena. Quando Peppe mi ha riportato questo verbo, non ho avuto nessuna presunzione d’averlo detto io, forse è la parola che in quel momento qualcuno, qualche angelo - direbbero le clarisse -, mi ha posto sulle labbra: sgusciare. Anche il giovane “vestito di un lenzuolo bianco” che segue Gesù appena catturato nell’Orto degli ulivi, stava per essere catturato ma - racconta l’evangelista Marco - lasciando il lenzuolo nelle mani dei nemici “fuggì via nudo”. Nudo e libero sgusciò dalle mani della morte per essere, in un momento di buio, annuncio di risurrezione. L’Olio degli Infermi, Elisabetta, ti ha permesso di svincolarti dalle mani della morte per consegnarti, finalmente libera da flebo e dolori, all’abbraccio del Cristo Risorto.

 

Ti parlavo di queste cose che si dicono sottovoce, come un segreto d’amore, nei momenti solenni e drammatici dove vita, morte e Vita si toccano, si sfiorano, si lambiscono, ti parlavo e mentre riuscivo a guardare te, non avevo il coraggio di guardare Angela (noi uomini, anche quando assistiamo ai parti delle mogli, abbiamo il pudore della nascita, e non sappiamo guardare le donne che soffrono e partoriscono i figli che sono nostri, ma forse appartengono di più a loro). Angela, piegata in due forse soffriva come non è accaduto neanche nelle doglie del parto, accompagnando il tuo sgusciare verso la vita. L’olio degli infermi ti ha aiutato a sgusciare, a scappar via, a uscir fuori da quel carcere che si chiama cancro, in attesa di un trapianto che non c’è stato tempo di compiere. Ecco, Elisabetta, grazie: siamo qui per dirti questo.

 

Avrebbero voluto parlare in tanti e, per questo, per tenere gli argini del dolore, parla solo il tuo Vescovo per dirti che siamo orgogliosi di te. Lo sono i tuoi genitori, lo è Marco, i tuoi fratelli, tutti noi: orgogliosi della lezione ricevuta da te, in vita e in morte, nell’arte di vivere e nell’arte di morire, che sono una sola cosa perché morte e vita si toccano continuamente, Elisabetta, e tu lo sai.

Grazie per come hai vissuto, grazie per come hai sofferto, grazie per come sei riuscita a sgusciare da questa vita, mentre si annunciava un’alba.

 

Voglio donarti questo verso di Erri De Luca, e lo faccio veramente senza presunzione, perché ha accompagnato il Natale del tuo Vescovo. Ne “In nome della madre”, Maria, che ha già dato alla luce il suo bambino, e lo tiene stretto e non vuole ancora chiamare Giuseppe, dice, guardando l’orizzonte: Ecco, lentamente l’alba striscia all’orizzonte e scardina la notte. È stato così l’altro ieri per te: un’alba di Natale (chi abbia distrutto il Presepe - qualcuno l’avrà fatto - lo rimetta in piedi; chi ha spento l’albero, lo riaccenda), un’alba di Natale, un’alba di Pasqua, la tua. E Pasqua è passaggio, Pasqua è sgusciare dalla schiavitù per la libertà, Pasqua è entrare nell’amore che tu ci hai insegnato.

 

Grazie, Elisabetta, siamo fieri di te, perché non hai pensato a te stessa e, anche nelle ultime ore, ci hai inondati di raccomandazioni, affidandoci gli uni agli altri, come Gesù sulla croce. Anche al tuo Vescovo hai detto: Vi raccomando papà e mamma, e Marco. Chi parte e sa partire, chi perde e sa perdere, non pensa a sé, ma pensa agli altri, pensa a noi. Elisabetta, hai messo tutto a posto, tutto in ordine, ci hai sganciati da te, e ci ha affidati gli uni agli altri come Gesù dall’alto della croce (Ecco tuo figlio. - E a Giovanni -: Ecco tua madre): Vi affido, prendetevi carico gli uni degli altri.

Questo, Elisabetta, nel nostro logoro linguaggio, si chiama amore. E l’amore è più forte della morte – vorrei gridarlo a Marco – è scritto nel Cantico dei Cantici: perché mai dovendo cercare una forza pari all’amore, l’autore sacro è ricorso alla morte? L’amore è più forte d’ogni cosa, più forte della morte. Noi lo sperimentiamo adesso, Elisabetta, sentendoci con te; lo sperimenteranno i tuoi genitori, Marco, i tuoi fratelli, tutti noi, in una miriade di miracoli che attendiamo da te, che sei riuscita a sgusciare così, silenziosa come la luce, in quell’alba che si preannunciava. Ecco, lentamente l’alba striscia all’orizzonte e scardina la notte.

La notte, Elisabetta, adesso è nostra. Tu no, tu sei nella luce, nella luce della Pasqua. E allora guarda questa notte, così lunga da passare, questo silenzio così duro da raccontare, questo cratere che ci hai lasciato dentro.

 

I tuoi genitori, Marco, i tuoi fratelli e tutti quelli che sono qui vorrebbero chiedere al Vescovo che è la sentinella: Custos, quid de nocte? Quanto ancora durerà questa notte? Quante altre morti avremo ancora da piangere? Quando si farà giorno?

Vogliamo affrontarla insieme questa notte e, stasera, alzando lo sguardo al cielo stellato noteremo una stella in più, una stella di prima grandezza. Grazie, Elisabetta.      

 

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Saluto finale

 

Prima di sciogliere questa assemblea con le parole della liturgia, vorrei invitare ciascuno di voi a compiere un gesto di vita. Tra oggi e domani compiamo un gesto legato alla vita, come può essere piantare un albero, una rosa… Saranno gli alberi a fare memoria di questo momento di congedo ma anche di attesa, perché questa assemblea, come dice la liturgia, che sciogliamo qui nella Chiesa terrestre, la ricomporremo definitivamente, senza separazioni, nella Gerusalemme del Cielo.

Elisabetta aveva anche espresso - ma era impossibile clinicamente - di donare i suoi organi. Vedete come, sul limitare della morte, ancora Elisabetta ha pensato alla vita? I medici che l’hanno avuta in cura, lamentano poca sensibilità sulla donazione del midollo. Se qualcuno di voi prende, da questa celebrazione, l’impegno di diventare un donatore, questo è un gesto di vita. Dobbiamo, dinanzi alla morte, fare gesti che sembrano folli, ma che sono radicati e che affondano le radici nel vivo della nostra fede.

 

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Il testo è stato tratto dalla registrazione.