In
punta di piedi in Episcopio
Riflessioni
di
S. E. Rev. ma Mons.
Arturo Aiello
“Nella notte si radica l’Alba”
Teano,
7 marzo 2012
Salone
dell’Episcopio
~
Vi
do il benvenuto e diamo il benvenuto anche a Vincenzina
Palmesano che è una gloria della nostra Diocesi: è di
Pignataro Maggiore e ci aiuta questa sera nella preghiera. Gli ingredienti
ormai li conoscete tutti: innanzi tutto il silenzio, il digiuno – siamo in
tempo quaresimale, tra l’altro – di applausi durante l’esecuzione, se non alla
fine; quindi tra un’ora e mezza possiamo esprimere anche la nostra riconoscenza
a chi da un punto di vista artistico ci aiuta nel nostro cammino.
Iniziamo
nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Cercando
un tema - l’anno scorso eravamo all’8 marzo e quindi obbligatoriamente scelsi
il tema della donna - poiché è l’unico incontro per adulti a livello di “In
punta di piedi” che facciamo in Quaresima, ne ho scelto uno non direttamente
quaresimale ma attinente: il tema della notte. Quindi magari cominciamo a farci
intrigare dal titolo: “Nella notte si radica l’Alba”. Abbiamo iniziato la
Quaresima col Mercoledì delle Ceneri, in penombra: iniziamo in penombra e
concludiamo la Quaresima in penombra perché la Veglia Pasquale comincia al
buio. Quindi questa notte ha qualcosa da dirci, ha attinenze con altre notti
che viviamo, più o meno drammatiche, tenebrose o romantiche.
F. CHOPIN – Notturno in Mib op-9 n.2
Prima
di entrare nel tema, che sarà scandito dai versi di Turoldo, vorrei richiamare
l’immagine, altre volte evocata in questa assemblea di “In punta di piedi in
Episcopio”, del salotto ottocentesco. Pensavo anche poco fa, che, mentre gli
economisti discutono, mentre le leggi del mercato, mentre il comprare, il
vendere o la difficoltà a comprare e vendere occupa la mente di tante persone,
ci si può ancora incontrare in una maniera alternativa, come amano dire i
vostri figli, alternativa e sovversiva, facendo musica, facendo arte. Quindi
dimenticando che l’economia è l’anima della storia (perché non è poi così vero,
anche se ovviamente l’intuizione di Marx rimane
intelligente, è un modo per rileggere la storia), forse in un salotto
ottocentesco si discutevano cose più decisive per il futuro del mondo, almeno
di quello occidentale, di quanto non avvenisse sui mercati, come anche adesso.
In questo momento così drammatico, così di restrizioni, dove ci sembra mancare
il terreno sotto i piedi, proprio adesso, proprio in questo momento della
storia, è bene fermarci alla scuola dei poeti, dei musicisti, di Gesù poeta e
musicista. Mi è cara questa immagine: spero che il nostro essere qui prepari
una rivoluzione. Ce n’è bisogno.
Scandirò
in quattro momenti questa nostra riflessione sulla notte, a partire dal testo
che avete in mano e che è del poeta Davide Maria Turoldo, poeta religioso,
consacrato nella sua vita, normalmente, in altri testi molto sofferto e
sofferente, e qui, invece, stranamente, per il suo timbro poetico, molto sereno
e con immagini che trasmettono una grande pace.
Uomo del mio tempo
Tu non sai cosa sia la notte
sulla montagna
essere soli come la luna;
né come sia dolce il colloquio
e l'attesa di qualcuno
mentre il vento appena vibra
alla porta socchiusa della cella.
Tu non sai cosa sia il silenzio
né la gioia dell'usignolo
che canta, da solo, nella notte;
quanto beata è la gratuità,
il non appartenersi
ed essere solo
ed essere di tutti,
e nessuno lo sa o ti crede.
Tu non sai come spunta una gemma
a primavera e come un fiore
parla a un altro fiore
e come un sospiro è udito dalle stelle.
E poi ancora il silenzio
e la vertigine dei pensieri,
e poi nessun pensiero
nella lunga notte,
ma solo gioia
pienezza di gioia
d'abbracciare la terra intera;
e di pregare e cantare
ma dentro, in silenzio.
Tu non sai questa voglia
di danzare
solo nella notte
dentro la chiesa,
tua nave sul mare.
E la quiete dell'anima
e la discesa nelle profondità,
e sentirti morire
di gioia
nella notte.
Parto
dal titolo - “Uomo del mio tempo” - che nel Novecento ha avuto un’altra
espressione drammatica dell’uomo fotografato nella carlinga di morte di
Quasimodo. Qui Turoldo parla a noi, suoi contemporanei (fatta eccezione di
qualche persona più giovane, Turoldo è stato nostro contemporaneo, anche se già
defunto) e quindi dialoga con chi ha vissuto nello stesso spazio (certamente
con la cultura italiana ma anche con la cultura ecclesiale) e nello stesso
tempo. Noi, come ho ricordato altre volte, non siamo quelli del terzo millennio
- credo che nessuno di voi si offenda - noi siamo quelli del Novecento, fatta
eccezione solo per qualcuno. Ebbene, cosa questo uomo del Novecento deve
sapere? Cosa fa difficoltà ad apprendere?
Tu non sai cosa sia la notte.
Potremmo dire che il Novecento lo sa bene: la notte di Wiesel per esempio, la notte dei
campi di sterminio, la notte della ragione che genera i mostri…
Ma qui il poeta, che è anche, ripeto, un “religioso” nel senso della
professione religiosa, vuole raccontare le sue notti.
Ho
preso questa foto (ringrazio Don Liberato che è il mio grafico di fiducia) che
un po’ evoca la solitudine di un uomo, di un consacrato nel suo convento, nel
suo monastero. Turoldo ha vissuto diversi anni, almeno gli ultimi, sotto il
monte, nel paese di Papa Giovanni, fondamentalmente solo in un piccolo
convento. C’è una torre, di cui parla spesso nella sua opera poetica, da cui
guarda la valle. Quindi il poeta ci mette a contatto con la sua notte, non
notti tenebrose (qualcuno ha interrogato Suor Nilda: “Ma il Vescovo di che
parla stasera?, perché se parla della morte non vengo!”. Si parla sempre della
morte, perché la morte e la vita sono una sola cosa, è tutto impastato), ma è
la notte di quest’uomo sulla torre, sulla montagna, perché il convento dove
Turoldo ha vissuto è in alto.
Essere soli come la luna. Uscendo, date uno sguardo alla luna: è l’ultimo
plenilunio prima di quello di Pasqua. Quindi alla prossima luna piena saremo
nella Settimana Santa. A questo accenno saremmo portati a pensare che è una
notte drammatica e invece no, perché parla di un dolce colloquio: e di come sia dolce il colloquio e l’attesa
di qualcuno (andrebbe con la Q maiuscola, ma rispettiamo Padre Turoldo; è
l’attesa di Dio). Mentre il vento appena
vibra alla porta socchiusa della cella. Quindi questa notte è una notte
degli appuntamenti: appuntamenti d’amore, di fede, parlo a persone credenti
(non è importante tantissimo, appena credenti basta). La fede è questo: è un
appuntamento, un appuntamento con Dio. Abbiamo un appuntamento in fondo alla
storia anche stasera. Anche questo è un appuntamento, per quanto ci sia una
pianista, un Vescovo folle che parla. In realtà mi chiedo perché siate venuti
anche così numerosi stasera… Perché abbiamo sentito,
in quest’aria di primavera incipiente, che ci fosse per noi un appuntamento
stasera. Questo appuntamento è segnato da un colloquio dolce, come sempre viene
tra gli amanti, perché la fede e l’amore - non mi stanco mai di dirlo - non
sono così lontani come linguaggi e come immagini. La fede è un grande amore -
dice il romanzo “La stanza del cuore”. Questo vale non solo per i consacrati,
ma per tutti. È chiaro che mettendovi a contatto con questo testo, intendo
estenderlo e spalmarlo nella vita di ciascuno di voi, senza “noi” e “voi”,
senza steccati, perché alla fine - sì, è vero - il Matrimonio ha portato molti
di voi in un vocabolario, in un file
di esperienze così particolari, segnate da una certa tonalità, ma poi alla fine
è come se ci rincontriamo. Io ho questa percezione: da ragazzi, da adolescenti,
da giovani si è insieme perché non si sono fatte ancora le grandi scelte (mi
fidanzo, mi sposo, mi consacro, vado in seminario...), poi è come se questo
fiume si biforcasse e avesse percorsi diversi (Matrimonio, figli, i bambini poi
crescono…). Ad un certo punto, quando i figli sono
già sufficientemente grandi e autonomi, questo fiume si riconnette, rifluisce
in un solo letto e quindi anche se siamo stati sposati o consacrati, se prete o
padre, se suora o sposa, madre, poi convergiamo in un unico alveo e questo
alveo è segnato da appuntamenti. A volte sono appuntamenti mancati.
L’importante è l’attesa: adesso il vento fa vibrare la porta della cella e
viene lui, è l’ora, è il momento… E invece non
accade, ma forse la dolcezza di questi colloqui, tra l’altro sempre rimandati,
sta proprio qui in un discorso che non si finisce mai a puntate (stavolta
tornano in positivo le telenovelas),
cioè un discorso che non ha mai il suo epilogo, ma ci lascia nel mezzo degli
interrogativi più importanti, quando sta per succedere qualcosa, ma la puntata
è finita e vediamo come va a finire nella prossima. Io spero che questa dolce
ansia - Vediamo come va a finire! -
ci segni nella nostra vita di credenti. Vediamo come va a finire questa
Quaresima, vediamo come va a finire questa Pasqua che si annuncia, questa
primavera che già è nell’aria, come dice il poeta (e per li campi esulta: non ancora… ma tra
poco), vediamo come va a finire questa mia vita, questa alternanza, questa
teoria di nascite e di morti, queste anse del tempo…
E tutto questo, ovviamente è assunto in una dimensione di fede, per cui è bella
anche la notte, è bello anche quando calano i rumori, si spengono le luci,
tacciono le voci del quotidiano e anche voi, come noi, come Turoldo sulla sua
torre, cominciate a pensare che questa notte è una notte di incontro.
F.SCHUBERT –
Improvviso in Mib n.2
Siamo
stati provocati anche da questa cascata di note. L’Improvviso, come dice il
termine stesso, è un genere musicale, è un’esplosione inaspettata di tempi (qui
ce n’erano due che si chiamavano, si intersecavano). Così c’è anche un
“improvviso” nelle nostre notti, in questa notte gravida dell’alba, in questa
notte della Quaresima che stiamo attraversando, come la notte della nostra
vita.
Torna
“Tu non sai”. Questa è come una lezione che vuole fare ai suoi contemporanei, a
noi. Quindi noi non sappiamo la notte; ovviamente è una notte solitaria, è una
notte con la luna piena, una notte d’attesa.
Tu non sai cosa sia il silenzio: forse siamo venuti qui per riscoprire il silenzio
che regna, dove il suono si espande, dove le parole – speriamo – tornano ad
avere significato, perché è il silenzio che dà senso alle parole, come le pause
alle note. Tu non sai cosa sia il
silenzio. Qui il silenzio è rotto, ma è ancora silenzio? Esiste il silenzio
assoluto? No, perché un silenzio assoluto sarebbe vuoto. Il silenzio è sempre
una cornice, è sempre una chiave, un pentagramma su cui si scrivono delle note,
si segna una melodia e stavolta, ovviamente siamo nella notte della prima
strofa, l’artista della notte è un usignolo che canta: d’amore? di nostalgia? E
qui, ovviamente, ciascuno che sente questo usignolo – come accade per la
musica, d’altra parte – gli darà i suoi sentimenti. Quindi questo silenzio
abitato: il silenzio della notte. È bellissimo, quando si è in montagna,
ascoltare nella notte le voci degli animali, i versi, anche da lontano. A volte
incutono paura, a volte ci immettono in una comunicazione.
Né la gioia dell’usignolo che canta, da
solo nella notte. Non è un’orchestra,
ma un solista, un violinista che esegue una partita di Bach per solo violino.
Quindi è il poeta, è il credente, colui che prega in questa notte? e se canta
da solo chi lo ascolterà? Nel prosieguo del verso, troviamo il senso di questo
canto.
Quanto beata è la gratuità,
il non appartenersi
ed essere solo
ed essere di tutti,
e nessuno lo sa o ti crede.
Quindi questo usignolo che canta
nella notte è lui, è Turoldo, è il poeta, ma è anche il consacrato (questa è
una strofa dove il consacrato si ritrova pienamente): cantare da soli (voi
sposati cantate insieme, speriamo accordati, un duetto, oppure pianoforte e
violino, pianoforte e flauto), quando il concertista si trova da solo davanti
ad una platea con uno strumento non sostenuto, non accompagnato, non sorretto,
non supportato da nessun altro suono, è a rischio gravissimo, perché in un
duetto una nota falsa può passare inosservata, ma non quando abbiamo uno
strumento nudo (solo violino). Ricordo una partitura per solo flauto, dove si
sente anche il respiro del flautista, perché non c’è null’altro che distragga.
Quindi questo usignolo che canta solo nella notte è lui, il consacrato. E per
chi canta? La risposta è: per nessuno o per tutti o per Dio, cioè canta per la
gioia di cantare, canta senza nessun altro motivo che non sia il suo canto
stesso. Questa è la gratuità, cioè un gesto che non si appoggia su nessun altro
gesto se non in quello che si sta compiendo. L’usignolo canta e nessuno gli va
a chiedere a chi è dedicato questo canto, chi vuole raggiungere, chi vorrebbe
commuovere con questo canto nella notte. Canta e basta. E questo canto si
chiama gratuità. Qui implico anche tutti voi, perché non è solo dei consacrati
la gratuità. Tra l’altro la gratuità è un bene oggi di cui c’è un assoluto
bisogno. Anche questa nostra serata è all’insegna della gratuità. Per caso avete
pagato il biglietto entrando? No, siamo qui, ci guardiamo, ascoltiamo,
pensiamo, ricordiamo, ci commuoviamo, capiamo, senza che ci sia quell’aspetto
prosaico, forse anche volgare, della nostra vita, che è il rapporto col denaro.
Hai procurato il biglietto? No, entro
e mi siedo. Potrebbe entrare uno dei tanti folli di Teano (ce ne sono diversi,
come in tutti i paesi ovviamente), le porte sono aperte…
La
gratuità è la cosa più bella che possa esserci, e l’arte è così. Quando l’arte
- penso agli autori - era commissionata, oppure quando bisogna cantare il
grande di turno, allora diventa schiava. Bisogna che l’arte sia libera, che
l’amore sia libero, che ci siano gesti nella nostra vita, anche grandi, anche
belli, anche di alta caratura, che siano gratis. Questa è una parola molto
rivoluzionaria: gratis. Tutti noi che amiamo, voi come genitori, io come
Vescovo, lo facciamo così, perché se non lo facessimo così il nostro non
sarebbe amore: sarebbe una prestazione professionale. Mettiamo il caso che io
stia facendo una prestazione professionale: voi immediatamente vi sareste
annoiati. Invece questo usignolo canta per la gioia di cantare, magari con
l’intento di evocare altri canti o di ricordare dei canti passati o di
prepararne altri per il futuro: questo rende unica - e non lo dico per me, ma
per voi, per la vostra presenza - questa occasione. Quanto beata è la gratuità, il non appartenersi - e poi dice il
poeta - ed essere solo, ed essere di
tutti. Sembra una contraddizione e invece è così: questa solitudine ci fa
appartenere perché solo chi è solo può stabilire delle relazioni, solo chi è
solo sarà un buon marito, una buona moglie, un buon padre. La solitudine è il
presupposto di ogni comunione, perché permane anche nel corso della comunione.
Per cui adesso siamo insieme e poi, quando sarà finito, ci staccheremo.
Essere solo e di tutti e nessuno lo sa o
ti crede. Questa è la nostra
contraddizione e la vita di un consacrato, che vive questa solitudine e al
tempo stesso questa appartenenza, è però segnata dal dubbio. Però chissà il Vescovo dentro quelle stanze… Chissà il mio parroco…
Chissà questa persona che dice di volermi bene, nella sua vita privata, nella
sua privacy… Chi lo sa? Nessuno ci crede. Però
questo fatto, lungi dall’essere un motivo deprimente, diventa un’ulteriore
libertà, perché non c’è bisogno che voi mi crediate, perché se io richiedessi
questa vostra fede, perderei un aspetto di gratuità. Per cui anche il dubbio
che gli altri hanno su di noi, su di voi, diventa uno stimolo ulteriore a vivere
cantando come questo usignolo nella notte, nel grande silenzio. Io spero
adesso, mentre ascoltiamo il prossimo brano, che vi vengano in mente molti o
alcuni dei tanti gesti di gratuità posti nella vostra vita. Nei confronti dei
figli si è sempre gratuiti, è tutto a perdere. Se un genitore dicesse: Adesso faccio questa cosa a mio figlio,
perché quando sarò anziano… Scórdatelo,
è a perdere! Faccio questa cosa per la gioia di farla, per il bene, e il bene è
in uscita, non è una “partita di giro”, come si dice da parte degli economisti:
esce e basta, è una perdita, pura perdita, ma se questo è accaduto, come nella
nostra vita tante volte, sappiate che questo ci salverà. Ci salverà questo
canto dell’usignolo nel grande silenzio della notte.
F. LISZT – Notturno in LAb n.3 “Liebestraum”
La
musica ci parla della vita in una semplicità disarmante e con una complessità
nell’esecuzione virtuosistica. Pensate a questo Notturno…
Questo tema, che era il motivo che l’autore aveva in mente, poi diventa una
variazione ricchissima, perché una vita è semplice, anche la nostra, fatta
anche di poche parole, di qualche gesto, di qualche data, ma poi speriamo con
l’arte gratuita, dono di Dio, di riuscire poi a svolgerla con infinite
variazioni.
Siamo
al terzo “Tu non sai”. Quante cose non sappiamo. Noi non smettiamo mai d’essere
a scuola, la vita è una scuola. Cos’altro non sappiamo? Ovviamente l’atmosfera
è sempre la notte e in questa notte, sulla montagna, c’è la solitudine della
luna, e adesso abbiamo ascoltato l’usignolo, voce del poeta stesso, proiezione
con cui il poeta si racconta.
Tu non sai come spunta una gemma a
primavera - questo è il motivo che mi
ha spinto a scegliere questa poesia tra le tante di Turoldo - e come un fiore parla ad un altro fiore come
un sospiro è udito dalle stelle. E poi ancora il silenzio e la vertigine dei
pensieri, e poi nessun pensiero nella lunga notte, ma solo gioia, pienezza di
gioia, d’abbracciare la terra intera e di pregare e di cantare ma dentro, in
silenzio.
Le
gemme spuntano di notte. Vorremmo vedere la rosa all’atto in cui si apre il
bocciolo, ma non ci riusciamo mai, perché per quanto arriviamo di mattina
presto è già fiorita. Quando è fiorita? Di notte. C’è un pudore nelle cose, c’è
un pudore nei fiori, di non volersi mostrare all’atto in cui si aprono. Per cui
questa veglia notturna verso la Pasqua-Alba, verso la Pasqua-speranza
piena, avviene nella notte ed è percepibile solo a quelli che sono gli abitanti
della notte, cioè i monaci, i veglianti, quelli che non si addormentano e nella
preghiera, nell’attesa, partecipano alla sinfonia del creato, perché adesso si
estende, non è solo l’usignolo, ma è la gemma, un fiore che prima si è aperto e
poi comincia a dialogare con gli altri. Come gli uccelli si richiamano, penso
ai merli in queste mattine di attesa primavera - così i fiori (non è solo una
percezione distorta del poeta) parlano tra loro, chiacchierano, dialogano, si
trasmettono dei segreti: come un fiore
parla ad un altro fiore e come un sospiro è udito dalle stelle. Siamo
partiti dalla gemma che si apre, e poi siamo entrati nella società dei fiori
per raggiungere le stelle che raccolgono i sospiri. Qui abbiamo un respiro
cosmico, cioè in questa notte sento respirare il creato, sento che il creato si
sta facendo adesso, non è stato fatto ma si sta facendo. Anche noi ci stiamo
facendo, stiamo crescendo di giorno in giorno, sempre di più; siamo come dei
bambini desiderosi di sapere, di apprendere, di guardare, di impossessarsi
delle cose. C’è un respiro del mondo che chi vive in questa notte, percepisce;
nel silenzio si sente veramente il respiro delle cose. Non sono solo
espressioni poetiche, e non sono neanche espressioni del mondo mistico, ma
dovrebbero far parte della vita ordinaria, perché, se non giungiamo a questa
apertura, la vita diventa quanto mai gretta, vita di commercianti, di cannibali
che si contendono una preda… Non vorremmo essere
così, ma entrare nelle cose (mi viene in mente una canzone di Dalla a questo
proposito, che si intitola “Le rondini”: vorrei entrare nel respiro delle cose,
sentirmi dentro e non esule, non solo spettatore, non davanti ad un mondo muto,
ma ad un mondo che parla, che si racconta, un mondo di fiabe). Ma questo
avviene al buio, avviene di notte, avviene di sera, come adesso. Per cui
uscendo, potrete vedere dei fiori, delle gemme che si sono aperte, dei
ciclamini che respirano, come dice Di Giacomo dei fiori che aspettano la luce: ncopp’ ’o terreno ’nfuso
suspireno ’e vviole).
Ma
come si fa a sentire il respiro di una viola? E poi tra l’altro il sospiro non
è perduto. Questa è la cosa più bella e se lo diciamo per le viole, tanto più
per noi. E di sospiri, nella nostra vita, ce ne sono tanti, legati a tante
apprensioni: ma questo sospiro, questa mia preoccupazione chi la raccoglie? Come un sospiro è udito dalle stelle: le
stelle non stanno a guardare, ma raccolgono i sospiri e se le “stelle” stanno
per “Dio”, che non è muto e impassibile, ma partecipa alle nostre vicende, alle
nostre apprensioni, ai nostri dolori, allora nella fede - perché c’è fede in
questi versi impastati, con queste immagini - noi recuperiamo una dimensione di
familiarità del creato che è alla base dell’equilibrio - mi va di sottolinearlo
- dell’uomo e della donna, dell’equilibrio psichico, cioè per stare bene noi
dobbiamo sentirci dentro a una scena, dentro a un mondo che ci ascolta. Noi non
ci siamo perduti, non siamo persone che hanno perso la memoria, che non sanno
più da dove vengono, come si chiamano, chi sono…
Siamo dentro un mondo e - neanche qui faccio il cantore dei tempi andati -
mentre il mondo antico questa percezione ce l’aveva, il nostro mondo, ponendoci
a contatto con tante nozioni, paradossalmente ci ha fatto perdere questo senso
di abbraccio. Ecco perché il disagio psicologico, psichico è aumentato, perché
è frutto di questa estrapolazione, di questo strappo, come si dice nel
linguaggio ginecologico, dell’uomo dal suo habitat, dal suo grembo. Ma quando
io entro in questa dimensione di familiarità - l’usignolo che canta che sono
io, c’è la luna enorme, la gemma che si apre, i fiori che parlottano tra loro,
le stelle che raccolgono i respiri, i sospiri - mi sento meglio. Questo è anche
un percorso di guarigione e, attenti, questo percorso è radicato nella fede,
cioè la fede - anche questo ve lo ripeto da anni - è un percorso terapeutico,
ti fa star meglio, perché in queste paure che i mezzi della comunicazione
sociale continuamente ti proiettano, togliendoti anche il sonno, ti introduce in più spirabil aere - direbbe il Manzoni - cioè ti introduce in un
affaccio più sereno sul creato, sul mondo, sulla storia. E questo è importante,
altrimenti noi rischiamo la schizzofrenia. Ma questa
cosa che sto facendo che c’entra? E gli altri che percepiscono? E mi sento
sempre più in un bozzolo che diventerà una bara, e invece no: c’è un respiro
delle cose, un respiro cosmico. Allora comprendiamo perché nasca questa gioia
nella lunga notte. E poi nessun pensiero
nella lunga notte e la vertigine dei pensieri - quindi è una notte di
veglia questa del poeta - ma solo gioia,
pienezza di gioia d’abbracciare la terra intera: è il senso di questa
ritrovata fratellanza con le cose, con gli animali, con le piante, soprattutto
con gli uomini, con la propria storia. Una ritrovata fratellanza che qui è
espressa con: pienezza di gioia
d’abbracciare la terra intera. Vi sarà capitato qualche volta di aver
voglia d’abbracciare le persone. Non mi riferisco ovviamente a cose erotiche,
no, cioè una gioia grande che voi uscite per strada e … Ora abbraccio questa vecchietta sdentata! Non è la persona, ma la
voglia di abbracciare il mondo, che è un grande approdo, il frutto di questa
ritrovata armonia di pregare e di cantare, ma dentro, in silenzio. Forse
nessuno sente il poeta che canta: è solo nella torre, è come un usignolo, sta
cantando, nessuno lo sente, ma in silenzio sta cantando e pregando. È quello
che poveramente stiamo facendo anche noi.
J. S. BACH- Variazioni Golberg Var. 13 – Var. 30 – Aria
Tu non sai questa voglia di danzare solo
nella notte dentro la chiesa,tua nave sul mare.
Questa è per me un’immagine
bellissima. C’è un crescendo nelle strofe di questa composizione. C’è innanzi
tutto la solitudine, il colloquio e quindi la possibilità di parlare. Ci sono
le labbra, poi il canto dell’usignolo che raggiunge l’udito che canta nella
notte, segno di gratuità, poi la vista, la gemma che fiorisce, si apre e parla
ad un altro fiore. Adesso è come se nel gran finale avessimo il “ripieno”, come
si dice in termini organistici, e chiamiamo tutti i registri. Quindi è il
corpo. Adesso questa immagine, probabilmente, vi sembrerà strana e anche forse
lontana dalla vostra sensibilità, eppure noi abbiamo bisogno di danzare e si
danza col corpo. Qualcuno di voi starà pensando: Ma io non sto bene, ho qualche
difficoltà di artrosi, sono venuto con qualche supporto, ho salito le scale con
difficoltà… Qui non si tratta di avere un corpo da
ballerino o da ballerina, ma è la voglia di esprimere, con tutto noi stessi, la
gioia di vivere. La voglia di danzare nasce dalla gioia di vivere. Si danza
nella gioia, la danza nasce così, come esperienza (le tribù che danzano per un
evento, per l’arrivo della luce, per esempio, un evento molto sentito,
preparato con danze, perché bisogna svegliare il sole). Quindi si danza la
vita, e la vita è una danza. Ovviamente starete pensando che abbiamo qualche
chilo di troppo, ma dobbiamo danzare anche oggi. Debbono danzare anche quelli
fra noi che sono ammalati - e lo siamo tutti in qualche maniera - chi
consapevolmente, chi senza ancora una diagnosi, perché se non danziamo, noi
abbiamo sciupato l’opportunità d’essere sul palcoscenico della storia. È una
danza la preghiera, è una danza l’amore, è una danza aprire la finestra, è una
danza anche questo nostro essere qui stasera, anche se state fermi; danza anche
il vostro Vescovo, con tutto se stesso, perché se qualcosa è tenuto fuori dalla
danza, è destinato a perire, perché la danza, nella percezione dell’uomo
primitivo (in quella percezione c’è molto di sapienza), era anche un modo per rabbonire la morte, per
tenere lontano il pericolo (la danza intorno al fuoco), per esorcizzare la
paura. Per cui ciò che non entra nella danza lo perdiamo, perché nella danza
abbiamo l’affasciarsi dei muscoli, dei pensieri, dei
sentimenti, dei nervi, intorno a un unico tema, perché la nostra vita o si
unifica o noi non stiamo crescendo, cioè dobbiamo tendere ad unificarci,
cosicché il presente, il passato, il futuro, i sentimenti, i tradimenti, le
realizzazioni, i fallimenti, tutto possa convergere verso un unicum. Quelli fra noi che stanno un po’
meglio degli altri - e non mi riferisco da un punto di vista fisico - come
persone, sono quelli un po’ più unificati, cioè non hanno doppie vite, triple
vite, non sono frazionati, ma girano intorno a un asse, come l’asse ideale
intorno cui gira la terra, si amalgamano, si affasciano,
si raggrumano intorno a un pensiero. Questo pensiero è Dio, non può essere
un’altra realtà: cioè Dio unifica. Allora vi auguro questa danza.
Siamo
di nuovo dinanzi ad un Improvviso che vi metterà dentro brio (Bach vi ha un
tantino rilassati e invece ora l’adrenalina riprenderà a correre nel vostro
corpo). Chiediamo che tutto torni, che tutto si raccolga intorno a Dio, Creatore
e Salvatore. Ci muoviamo verso la Pasqua così, morte e vita riassunti
nell’unico evento.
F. CHOPIN – Fantasia-Improvviso op. 66
Solo nella notte dentro la chiesa, tua
nave sul mare. Questo è il verso più
bello. Vincenzina, che suona, è nipote di un
sacerdote della nostra Diocesi, defunto, e quindi dedichiamo a lui questo
verso. Mi piace perché da prete - ci sono qui anche alcuni preti: spero che sia
così anche per loro - ho vissuto la gioia di passeggiare nella chiesa chiusa (i
migliori momenti), perché c’è la preghiera per la comunità che non c’è, i
banchi sono vuoti, le luci sono spente, ma questa nave ancora naviga. Nave:
navata. “Navata” viene da “nave”, perché la chiesa ha un’estensione, mi ha
fatto sempre pensare a una nave - nave, navata - che qui il poeta riprende
perché dice: dentro la chiesa, tua nave
sul mare. Quindi questa esperienza del prete da solo, usignolo, nella notte
magari, che passeggia nella chiesa vuota, chiusa, e naviga. Anche noi stiamo
navigando. Mi dispiace per quelli che hanno navigato in piedi in questa ora, ma
l’importante è il panorama, l’importante è affacciarsi e guardare: arriva
l’aria di mare, respiriamo iodio… E poi le isole
passano, poi l’orizzonte, ci sono le costellazioni in alto…
Ogni tanto avete sentito qualche piccolo movimento qui, nel nostro salone,
perché stiamo per approdare in navigazione. Approderemo tranquilli, perché si
naviga, cioè si va: è così ogni esperienza, ogni vera esperienza. Io spero che
entriate in chiesa da un porta e possiate uscire da un’altra, perché non è lo
stesso porto dove approdate: approdiamo ad un altro porto, ad un’altra
percezione, ad un grado di fede ulteriore; non solo io sono diverso, ma è
diverso l’ambiente, adesso che la nave sta per gettare l’ancora. E questa è la
preghiera che genera una quiete. E la
quiete dell’anima, e la discesa nelle profondità e sentirti morire di gioia
nella notte. Concludo dicendovi che questa è anche l’esperienza di Gesù.
Ovviamente tutto quello che ho detto fino adesso è legato alla fede: quest’alba
che si radica nella notte è l’alba di Pasqua che si radica, sì nella notte di
Quaresima, ma nella notte del tradimento. Tu
non sai cosa sia la notte sulla montagna, essere soli come la luna (Gesù
nell’orto).
Tu non sai cosa sia la notte sulla
montagna essere soli come la luna; né come sia dolce il colloquio e l'attesa di
qualcuno…
Tu non sai cosa sia il silenzio né la
gioia dell'usignolo che canta, da solo, nella notte… Padre, se possibile allontana da me questo calice…
Il non appartenersi e quanto beata è la gratuità… Non c’è
nulla di più gratuito dell’evento della redenzione perché non lo meritavamo,
nessuno.
Tu non sai come spunta una gemma a
primavera e come un fiore parla a un altro fiore. Siamo già nel procinto della Pasqua…
E poi ancora il silenzio e la vertigine
di pensieri e poi nessun pensiero
nella lunga notte, ma solo gioia, pienezza di gioia d'abbracciare la terra
intera; e di pregare e cantare … con le braccia allargate, sulla croce.
Tu non sai questa voglia di danzare solo
nella notte dentro la chiesa, tua nave sul mare. E la quiete dell'anima e la
discesa nella profondità, e sentirti morire di gioia nella notte.
Ascoltando
l’ultimo brano, diciamo grazie a Gesù che ha avuto costanza nella Sua notte e
ci ha guadagnato l’alba: l’Alba di Pasqua.
Benedizione
del Vescovo
F. LISZT – Anni di Pellegrinaggio “I Giochi d’Acqua a
Villa d’Este”
***
Il
testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto
dall’autore.