ORDINAZIONE
PRESBITERALE
di
Francesco
Di Nucci
per l’imposizione
delle mani
e la preghiera consacratoria di
S.
E. Rev. ma Mons. Arturo Aiello
Teano, 17 febbraio
2012
Chiesa Cattedrale
~
Saluto
iniziale
Saluto
con tanto affetto Sua Eccellenza Monsignor Dal Covolo,
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense, ma direi soprattutto
magnifico amico e fratello nell’Episcopato: la sua presenza impreziosisce il
diadema della nostra piccola ma preziosa Chiesa di Teano-Calvi che questa sera
presentiamo al Signore, pur nella nostra povertà, ma nella magnificenza della
grazia, su cui sta per essere incastonato un nuovo diamante. Francesco,
diacono, nasce presbitero sotto i nostri occhi. Per la verità sarebbe meglio
chiudere gli occhi durante questa celebrazione, perché si vede meglio col
cuore. Ci sono momenti nei quali i sensi rimandano ad altro: guardiamo i segni,
ma oltre i segni c’è un oceano di grazia che invade una persona, che questa
sera è Francesco. Lo accompagniamo con la nostra preghiera trepidante e col
nostro affetto. Dopo i giorni di grande freddo, fiorisce un mandorlo nella
nostra Chiesa. “Cosa vedi?” - dice Dio al giovane Geremia. Ed egli risponde:
“Vedo un mandorlo”, perché il profeta è una sentinella e anche il prete lo è.
Fiorisce un mandorlo: si chiama Francesco. I sacerdoti, in questa celebrazione,
rivivono la grazia del loro presbiterato, della loro Ordinazione che ha una sua
reviviscenza: auguro loro di poterla vedere e accogliere a piene mani. E poiché
ci troviamo sempre incerti e poveri davanti al Dio che ci chiama, chiediamo
umilmente perdono dei nostri peccati.
LETTURE
Is 6, 1-8
Sal 62
Eb 5, 1-10
Gv 6, 1-15
Omelia
Eccellenza
Reverendissima, carissimi presbiteri, diaconi, seminaristi, ministranti,
religiosi e religiose, fratelli e
sorelle nel Battesimo,
nella
processione introitale, prima di uscire, Sua Eccellenza Monsignor Dal Covolo mi diceva: “Sono bei momenti per la vita di un
Vescovo”. Effettivamente il momento dell’Ordinazione Presbiterale costituisce
la più grande consolazione per un Vescovo, ma spero di condividere con voi
tutti, presbiteri, diaconi, laici, religiosi e religiose, questa gioia. Oggi,
come ho già detto all’inizio della celebrazione, la nostra Chiesa si impreziosisce
di un nuovo presbitero e non si tratta solo di una grazia: per i prossimi anni
è assicurato pane, grazia, perdono, direzione, consolazione a tanti nostri
figli e figlie; dovreste rallegravi con me in questo momento, perché in
Francesco presbitero noi vediamo, intravediamo, anche noi più avanti negli
anni, l’avvenire della nostra Chiesa. C’è ancora futuro.
Noi
abbiamo bisogno in questo momento - ne abbiamo sempre bisogno, ma in questi
tempi calamitosi particolarmente - di segni di speranza, dal momento che i
segni di delusione, di recessione economica sono tantissimi. Oggi noi siamo
invitati a guardare con speranza al nostro futuro: c’è ancora chi dice sì a
questo progetto meraviglioso e tremendo che è l’essere investito della potestà
stessa di Gesù, sommo ed eterno Sacerdote, a beneficio dei fedeli che lo
vogliano.
Francesco
vive in questa celebrazione un momento che divide in due definitivamente la sua
vita, perché tutti i giorni che vivrà in seguito avranno il timbro, la grazia,
la luce, la forza di questo momento. È come - l’ho detto già in altre
Ordinazioni - se in certi momenti si dessero convegno tutti i giorni passati e
tutti i giorni futuri in una densità che è difficile esprimere, ma che, con i
sensi della fede, ciascuno di voi può intendere, nel senso che di qui, da
questo momento, nasceranno non solo per Francesco, ma per tutti coloro che
usufruiranno del suo Ministero, miracoli che noi ovviamente non riusciamo a
vedere, ma che Dio sa e che si radicano e prendono senso, forza e direzione da questo
momento.
La
Liturgia della Parola ci ha preparati e ci prepara a questo momento. Tra le
Letture che Don Francesco ha scelto, mi soffermo in particolare sulla prima e
sul Vangelo. Nella Prima Lettura ci confrontiamo con una delle chiamate più luminose
e, se il termine non vi appare negativo - per me è positivo -, più “barocche”
tra i racconti di vocazione, perché abbiamo un bambino (pensate ai bambini che sono qui e che magari faranno un
grande atto di pazienza in queste due orette che stiamo insieme) o anche un
ministrante, Annibale per esempio, che vedo qui, un ministrante di
Pietravairano, che è preso dal luccichio, dai profumi dell’incenso, dal suono
delle trombe, dal suono dell’organo, dalle voci del coro, ed entra in una
dimensione nuova. Dev’essere stato così l’evento che
poi, nel tempo, ha dato forma a questo racconto dove ci sono simboli: Dio che
siede su un trono altissimo, la corte celeste riunita, ci sono sfavillii,
scintillii, come in questa celebrazione. Ovviamente Annibale, che adesso ho
scelto come mia “cavia”, davanti a tutto questo splendore si sente ancora più
piccolo - quanti anni hai, Annibale? Tredici… - e
dice: Ma sono degno d’essere qui? Partecipo nella Chiesa Cattedrale e non nella
chiesa San Giovanni, che ha bisogno d’essere resa più bella…
Sto qui in prima fila, al primo banco, e tutto questo è troppo per me!
Nasce
un senso di indegnità: io appartengo ad un
popolo dalle labbra impure, vengo da Pietravairano, e allora c’è un rito di
purificazione che è questo carbone ardente (ovviamente è un simbolo, Annibale,
non ti preoccupare, non accadrà per te), preso dal braciere che arde e dove
vengono versati i profumi, gli aromi, davanti al trono di Dio, e questo carbone
ardente fa un po’ da ponte tra l’eterno e il tempo, giungendo fino a questo
giovane che si sente fuori luogo. Io spero che anche voi vi sentiate fuori
luogo: Ma com’è possibile che sono qui? Com’è possibile che questo miracolo
avvenga sotto i miei occhi?
La
cosa più bella di questo racconto è che a un certo punto si crea un’emergenza
nella mente di Dio, in questo sovrano che interroga i suoi saggi: c’è una
missione speciale da compiere, Annibale, c’è qualcosa di grande da fare e
nessuno si fa avanti. Questa è una cosa terribile: nessuno manifesta una
disponibilità. Allora, proprio il piccolo e giovane “bambino-profeta” dice:
“Eccomi, manda me”. Forse questa cosa, Annibale, gli sfugge dal cuore, come per
te, mentre lo dice si pente d’averlo detto… Cosa
posso dire io davanti a questa corte? Possono parlare i santi, possono parlare
gli angeli, possono parlare quelli più avanti di me, più saggi di me, più santi
di me… Ma si rende disponibile un ragazzo.
Come
già per l’Ordinazione Diaconale, ma ancora di più questa sera, guardando il
volto di Francesco molti di voi hanno un tuffo al cuore, a dire: “Ma è così giovane…”. Francesco mi ha rimproverato per sei mesi
d’avergli dato un anno in più all’Ordinazione Diaconale, allora lo dico
precisamente: ha 26 anni e qualche mese. Si può a questa età? Si può nel pieno
della giovinezza? Si può - mi diceva una mamma - quando non si sono
sperimentate certe cose belle della vita? Si può dire: “Eccomi, manda me”?
La
risposta, Francesco, è che questa disponibilità la danno solo i piccoli. Noi
grandi non più e, come ho detto altre volte, noi già ordinati da un anno,
dieci, venti, cinquanta, settanta, diciamo: “Per fortuna che questa cosa l’ho
fatta allora”, perché se oggi a me, a voi, venisse chiesta la stessa cosa, noi
ci tireremmo indietro, perché, Francesco, noi adulti, siamo egoisti. Noi
adulti, andando avanti negli anni, a meno che non intraprendiamo decisamente la
via della santità, diventiamo calcolatori. Dio ci liberi; vi liberi da noi che
diciamo: “Ah, l’amicizia!”. Quante volte gli adolescenti si sentono dire questo
dai loro genitori: “Quand’ero giovane anch’io…”.
L’amicizia, la gratuità, fare del bene senza motivo, i giovani, i bambini, a
volte le comprendono più di quanto non riusciamo a comprenderle noi grandi.
Quindi non è un incidente, Annibale, che Isaia si sia buttato avanti quando i
grandi si sono tirati indietro. Non è l’eccezione: è la regola, cioè le cose
grandi le fanno solo i bambini; le cose belle, le cose entusiasmanti riescono a
tirarle fuori solo i giovani. Ecco perché voi giovani che siete qui, a questa
celebrazione, siete interpellati, voi che vivete questa grazia meravigliosa che
si chiama giovinezza, fatta di grandi ideali, di grandi sogni, di radicalità.
Ma questa grazia passa, a meno che voi, in questo momento, non la avvitiate
sull’Eterno. Francesco, in questa celebrazione, avvita la sua giovinezza
sull’eterna giovinezza di Dio e solo questo gli permetterà di non invecchiare e
di non diventare egoista anche lui. Attenti, accogliete questa grazia, spendete
questa moneta su mercati di altissimo valore e non sui mercatini rionali;
spendete questa grazia della giovinezza per ciò che più vale!
Se
ci fate caso, è nuovamente un ragazzo a farsi avanti nel racconto della
moltiplicazione dei pani secondo l’evangelista Giovanni. C’era una moltitudine,
tanta gente accorreva a Gesù, come stasera, qui, nella nostra Cattedrale, e
Gesù guarda le folle con compassione, con amore, e vorrebbe dare dei pani a
tutti, ma non li ha. Allora interpella i Suoi discepoli e subito gli economi
dicono: “Ci vorrebbe tanto. No, non ce li abbiamo questi soldi”. Ma Andrea
riceve una visita strana: un bambino. “C’è qui un ragazzo - dice Andrea - che
ha portato pochi pani e pochi pesci. Ma che è questo per tanta gente?”.
Anche
qui, come nella Prima Lettura, dove Isaia si lancia, c’è un ragazzo. Pensate
che anche Davide era un ragazzo quando c’era da combattere contro il gigante
Golia e nessuno si fece avanti, neanche Saul, il re che era in dovere di
combattere a favore di Israele: tutti si tirano indietro, anche i prodi, e
allora arriva questo ragazzo con una fionda, un ragazzo che ha giocato, perché
la vita ce la dobbiamo giocare, e non a dadi, non nei giochi che stanno
diventando una malattia in giro, ma per l’unica cosa per cui valga giocarsela.
Come
vedete, nelle Letture che Francesco ha scelto - magari non le avrà scelte per
questo - c’è questo filo di un ragazzo, di un entusiasmo adolescenziale, di una
grazia della giovinezza che permette certe cose che altrimenti sarebbero
impossibili.
Pensate
all’interrogatorio a cui con un po’ di compassione, tra un po’, sottoporrò il
candidato. Ma chi ce la può fare? Sì, lo
voglio! Sì, lo voglio! Sì, lo voglio!... E il Vescovo sprofonda nella sua
Cattedra, nella sua sedia, dicendo: “Ma questo ragazzo ce la farà?”. La Chiesa
pone sulle nostre labbra delle domande impossibili, ma un ragazzo si getta in
questa avventura.
Grazie,
Francesco, per questa furbizia che hai avuto di avvitare la tua giovinezza,
prima che passi, sull’unica cosa che conti: Dio. Il Suo Figlio Gesù, che è
venuto a salvarci, chiede mani, come ho detto ieri sera alla Preghiera-Giovani,
chiede occhi, chiede cuori, chiede disponibilità, chiede pani. Questi pani
siamo noi, questo pane è il ragazzo che è venuto e che ha rinunciato alla sua
merenda. I grandi no, gli adulti no! Noi non sappiamo farlo, noi siamo
calcolatori, abbiamo bisogno della sicurezza economica, del conto in banca! Il
ragazzo no, il ragazzo si butta, ha un impeto di entusiasmo e dice: “Sì,
eccomi!”. Porta i pani o è lui questo pane? E Francesco non è un pane che
stiamo per consacrare?, perché la Liturgia dell’Ordinazione, cari fratelli e
sorelle, è null’altro che una Eucarestia dove anziché il pane e il vino abbiamo
un giovane, abbiamo un corpo, del sangue, dei ricordi, degli affetti, dei
progetti, abbiamo un uomo: è lui l’agnello condotto al macello questa sera, è
lui il pane che sembra piccolo, un panino, ma questo pane si moltiplicherà a
dismisura e, tra dieci anni, vent’anni, trent’anni, cinquant’anni, quando il
Vescovo che sta parlando sarà morto e non ci sarà neanche la polvere, Francesco
starà ancora a distribuire pani. Da questo pane, tanti pani. Ma per far questo,
Francesco, c’è bisogno di educare i nostri sentimenti.
Spero
che questa mattina non ti sia passato inosservato Sant’Agostino - e neanche a
voi, cari presbiteri e diaconi - quando, nella lettura patristica dell’Ufficio
delle Letture, ci ha detto: “La vita è un allenamento del desiderio”. Che cosa
grande! La vita è un allenamento del desiderio, è una palestra del desiderio,
nel senso che la vita ci è data per desiderare, ma si possono desiderare cose
dozzinali, si possono desiderare cose terra terra, si
può desiderare il cielo, si possono desiderare cose piccole o cose grandi. E il
desiderio bisogna allenarlo. Francesco, in tanti anni e fin da bambino, ha
cominciato ad allenare questo desiderio nella palestra che è la Chiesa, dove si
fanno esercizi per stendere fino allo spasmo i piccoli desideri, perché
divengano grandi desideri.
Si
può desiderare Dio, cari fratelli e sorelle? I santi lo hanno desiderato e lo
desiderano, anche i santi che sono fra noi. E perché bisogna allenare i
desideri? Perché i desideri non sono dei semplici strumenti, ma dicono di noi.
Non solo dicono della nostra nobiltà o del nostro essere poca cosa, ma anche
perché l’oggetto del desiderio ci cambia. Francesco, l’oggetto del desiderio ti
cambia. Dovrai insegnare ai tuoi giovani che si diventa ciò che si desidera.
Alcuni giovani diventeranno dei motorini, perché desiderano i motorini, come se
fosse il massimo dei beni da acquisire. Le signore che desiderano un gatto - mi
dispiace per loro - potranno diventare delle gattine. Diventerai ciò che
desideri: un oggetto? una grande realtà? E quelli che desiderano Dio? Diventano
Dio, diventano come Dio. Francesco, il tuo desiderare d’essere dietro a Gesù,
d’essere con Lui, d’essere come Lui, ti rende stasera Gesù.
Concludendo,
ti preparo ad una delusione che vivrai, che potrai vivere stasera o tra un
anno, tra dieci anni, quando busserai alle porta di Gesù, del Suo cuore…
- Chi è? - risponde Gesù.
-
Sono Francesco! Francesco Di Nucci! Sono un
presbitero!
- Non ti conosco.
-
Gesù non mi conosce…
Allora,
Francesco, cercherai nuovi modi per presentarti (Forse Gli è sfuggito che venerdì 17 febbraio - che brutto giorno il
Vescovo ha scelto per un’Ordinazione! - sono diventato presbitero) e
busserai ancora…
- Chi è?
-
Sono Francesco. Sono cresciuto con l’orizzonte del mare - quelli tra noi che
sono nati sul mare, desiderano i grandi orizzonti: Dove c’è il mare, c’è libertà, cantava un po’ di anni fa De Crescenzo,
perché non ci sono ostacoli, ma il confine lontanissimo, il baciarsi del mare e
del cielo - Sono Francesco! Ho negli occhi il mare di Formia!
E
Gesù dirà:
- Non ti conosco.
Allora,
angosciato, forse in lacrime, Francesco, cercherai un modo per presentarti, per
farti riconoscere e, dopo aver bussato…
- Chi è?
-
Sono Checco… - molti non sanno che Francesco, a casa
sua, è chiamato Checco, perché quando si è bambini, Francesco è un nome
difficile da dire. Quando dicevano a Francesco: “Come ti chiami?”, non potendo
dire Francesco, avrà detto Checco, e così gli è rimasto questo nome - Sono il
bambino che giocava, il bambino che bussava alle porte della custodia, il
bambino che guardava Sant’Erasmo e gli sembrava enorme sulla grande pedana…
Ma
anche davanti a questa confessione, a questa foto, a questa identità di
Francesco bambino, di Checco, Gesù dirà: Non
ti conosco.
Comincerai
a piangere, come succede sempre nella preghiera, quando non ci sentiamo capiti.
E quando, dopo tante lacrime ribusserai, perché bisogna bussare e ribussare (Bussate e vi sarà aperto - ci ha detto
Gesù) e, dall’interno, Gesù chiederà: Chi
è?, e tu che non puoi più dire: Sono Don Francesco, sono Francesco con
il mare negli occhi, sono Checco, sono il cristologo, alunno della Pontificia
Facoltà, ho studiato alla Facoltà del Papa, alla mia Ordinazione c’era anche il
Magnifico Rettore…, in un impeto di verità dirai:
-
Gesù, non so più chi sono… Non sono Francesco, non
sono Don Francesco, non sono il cristologo, non sono Checco…
- E chi sei?
E
tu risponderai:
-
Sono Tu.
E
si aprirà la porta.
L’amore
è così: l’amante e l’amato partono da luoghi diversi, con identità diverse, con
nomi diversi, con sensibilità diverse, ma poi pian piano si avvicinano, si
abbracciano, diventano una cosa sola, si confondono, al punto che l’amante
diventa l’amato. Francesco, il prete è questo: è Gesù. Per questo dovrai
rispondere: “Sono Tu”. È “sgrammaticato” tutto questo, ma i sacerdoti che forse
mi stanno ascoltando - e magari anche voi - sanno che questa sgrammaticatura è
quanto mai vera.
Io
sono Tu. Sono diventato Tu, perché Tu vivi in me. Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me e questa vita - dice
Paolo - che vivo nella carne, io la vivo
nel nome e nell’amore di Gesù che ha dato la vita per me. A Lui sia gloria
e potenza, qui e ora, nel nostro piccolo oggi, e nei secoli dei secoli.
Amen.
***
Il
testo, tratto direttamente dalla registrazione, non è stato rivisto
dall’autore.